Nel 2023 la speranza di vita in buona salute alla nascita era pari a 60,5 anni per gli uomini e 57,9 per le donne
di Letizia Giangualano
La salute delle donne è il paradigma dello stato di salute dell’intera popolazione»: con questa dichiarazione la dottoressa Margaret Chan assumeva nel 2006 l’incarico di direttrice generale dell’Oms, lanciando al mondo una sfida per le politiche sanitarie e sociali. Puntando il faro sulla salute delle donne quale vero e proprio indice per misurare il livello di civiltà, democrazia e sviluppo di un Paese, Chan sosteneva lo stato di salute e soddisfazione femminili sono veri e propri indicatori del benessere di una società nel suo complesso.
Nel mondo le donne sono ancora le più povere, le meno istruite, quelle con minor reddito e con minori diritti civili. E nella disuguaglianza tra uomini e donne si rispecchiano ancora oggi molte altre disuguaglianze, discriminazioni e oppressioni. Perciò occorre soffermarsi a valutare il livello di salute e la speranza di vita delle donne nella nostra società, e soprattutto osservare se e come la cura di sé e la prevenzione interferiscono con tutti gli altri carichi di cura attribuiti al ruolo materno.
Insoddisfazione e benessere
La recente indagine “Aspetti della Vita Quotidiana” dell’Istat rileva la soddisfazione per le condizioni di vita dei cittadini attraverso una pluralità di indicatori. Nel 2023 gli uomini si sono dichiarati più soddisfatti per le personali condizioni di vita rispetto alle donne (48,7% contro il 44,8%), così come per il proprio tempo libero (70,2% contro 66,2%).
Se incrociamo questo dato con il fatto che la soddisfazione è più bassa nella fascia in cui la popolazione è più attiva nel mercato del lavoro (25-59 anni), non è difficile individuare come meno soddisfatta quella parte di popolazione femminile che se ha figli, li ha di un’età che necessita della loro presenza attiva. La differenza di genere nel livello di felicità percepita può essere dunque anche imputabile alle difformità di genere nelle entità dei carichi di lavoro domestico ed extradomestico e del lavoro di cura.
Le donne vivono di più, ma peggio
Esiste un luogo comune che vorrebbe le donne più longeve degli uomini, ed è in effetti confermato dai dati, ma quali sono le condizioni di salute in questa aspettativa di vita? Dal rapporto Bes Istat 2023, emerge che si è assottigliato il divario di genere (-4,1 anni) nella vita attesa alla nascita che vede comunque svantaggiati gli uomini (era quasi -6 anni agli inizi del 2000).
Nonostante la maggiore longevità delle donne, spetta però agli uomini trascorrere un maggior numero di anni da vivere in buona salute: nel 2023 la speranza di vita in buona salute alla nascita è pari a 60,5 anni per gli uomini e 57,9 per le donne. Inoltre il più elevato livello di sopravvivenza tra le donne determina per loro un periodo più lungo da vivere senza godere di una buona salute (circa 27 anni per le donne e circa 20 per gli uomini).
Anche per quanto riguarda la salute mentale, a passarsela peggio sono ancora le donne, assieme ai giovanissimi. Il gap rispetto al punteggio relativo agli uomini è di 4,3 punti nel 2023, in aumento rispetto ai 3,7 punti di differenza del 2019. L’indice di benessere psicologico ha i suoi picchi negativi nelle fasce 14-24 anni, per poi prendere a decrescere dopo i 45 anni. La differenza di genere a svantaggio delle donne si osserva a tutte le età.
Perchè le donne non si curano (o si curano meno)
Questi sono i dati, ma a che cosa si deve questo gap di genere nello stato di salute?
Agli inizi degli anni Novanta, la cardiologa e ricercatrice Bernardine Patricia Healy, chiese alla comunità medica: «Le donne devono vestirsi da uomo per poter essere curate dai medici?» Diventata direttrice dei National Institutes of Health (Nih) statunitensi, cominciò a portare alla luce come la ricerca scientifica fosse condotta soltanto sugli uomini e sugli animali maschi. Notò come a livello clinico le donne fossero sottoposte molto meno degli uomini a procedure diagnostiche e terapeutiche e riportò le sue riflessioni in un editoriale intitolato “La sindrome di Yentl”, dove Yentl è il nome dell’eroina di un poema del diciannovesimo secolo che doveva vestirsi da uomo per poter frequentare la scuola rabbinica. A questo editoriale si fa risalire l’inizio delle riflessioni sulla “medicina di genere”.
C’è sicuramente alla base di questa trascuratezza tipicamente femminile un senso di inefficacia, di ascolto inappagato, un’idea di medicalizzazione inadeguata che trova per esempio in sala parto la sua massima esplicazione. Si denuncia sempre più spesso la violenza ostetrica, ma tutto il sistema medico attorno a gravidanza e parto sembra dare veramente poco valore all’esperienza biologica femminile per prediligere protocolli e procedure, che spesso sfociano in traumi, disagi e paure che compromettono i legami di accudimento.
Fonte: ilsole24ore.com